“Disabile”, “Handicappato”, “Invalido”, “Inabile”, “Diversamente abile”… Capita spesso che le persone si sentano in difficoltà nell’utilizzare parole riguardo la disabilità, per evitare di offendere, infastidire o più semplicemente fare brutte figure. C’è chi si rintana nel politically correct per sentirsi al sicuro, e chi invece scade in quel pietismo e buonismo che di positivo non hanno niente: in entrambi i casi la disabilità viene trasmessa in modo negativo, alimentando stereotipi e pregiudizi ma anche sminuendo la dignità e il valore della persona stessa, anziché abbattere barriere sociali e culturali.
Sarebbe bello non vedere più la “diversità nella diversità”. Vedere, sentire, vivere il “disabile normale”, non discriminato. La persona che non sempre può frequentare la scuola, che difficilmente può lavorare, che a volte non può uscire per le eterogenee barriere: questo è il “normale disabile”. E tutto l’amore, e l’attaccamento per la nostra vita deve quotidianamente fare i conti con gli sguardi curiosi degli altri, il dover certificare (nel senso letterale del vocabolo!) per poter veder riconosciuti e tutelati i propri diritti.
Senza dubbio le specifiche misure previste dal legislatore per garantire ai soggetti diversamente abili la partecipazione ai concorsi rappresentano la declinazione in chiave sostanziale del principio di eguaglianza (art. 3 Cost., da leggere oggi anche alla luce dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) nell’accesso ai pubblici uffici, espressamente previsto dall’art. 51, co. 1, Cost., da leggere in ideale collegamento con il principio del pubblico concorso di cui agli artt. 97, co. 3, Cost. e all’art. 106, co. 1, Cost.
Purtroppo però, nel nostro Paese tra una legge e la sua applicazione corre tanta strada ed anche questo caso non fa eccezione. Nonostante i vari aggiornamenti delle normative, in particolare alla direttiva n.1/2019, ancora oggi le categorie protette non sono del tutto tutelate.
Anche la Corte Europea, di fronte alle numerose sentenze di questo tipo e ai molteplici casi di discriminazione sollevati dai candidati disabili ai pubblici concorsi, dopo una lunga disamina della legislazione italiana, ha statuito che :
“Emerge da quanto precede che la legislazione italiana, anche se valutata nel suo complesso, non impone all’insieme dei datori di lavoro l’obbligo di adottare, ove ve ne sia necessità, provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, al fine di consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. Pertanto, essa non assicura una trasposizione corretta e completa dell’articolo 5 della direttiva 2000/78.
Di conseguenza, occorre dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78. E per questo è stata condannata alle spese”.
Alcuni lettori hanno segnalato una vicenda assai incerta riguardante il concorso pubblico regionale per la copertura di n.2445 posti di Operatore Socio Sanitario.
Diversi i ricorrenti che hanno manifestato, anche per vie legali, la possibile violazione della legge n.68/1999, che rappresenta il vademecum per la tutela delle categorie protette, da cui ne deriva una vera e propria discriminazione.
In particolare sottolineano come la pubblica amministrazione sia tenuta ad assumere persone con disabilità nella quota d’obbligo prevista dalla normativa e ad osservare precisi vincoli per effettuare le assunzioni in conformità a quanto previsto dall’art. 35 del Decreto Legislativo n. 165/2001 in tema di procedure per le assunzioni presso le pubbliche amministrazioni.
L’art. 3 della legge 68/99 prevede che i datori di lavoro, pubblici, come quelli privati, sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori invalidi nella seguente misura:
a) 7% dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti;
b) 2 lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;
c) 1 lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti.
Proprio in riferimento a tutto ciò chiedono che il Consiglio Regionale della Puglia e in particolare il Presidente Michele Emiliano facciano una volta per tutte chiarezza sulla vicenda, che oramai da mesi perseguita i vari ricorrenti che vedono probabilmente violato un loro diritto.