PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: QUESTA E’ DEMOCRAZIA?

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Espungere gli irrazionalismi dalla Legge Fondamentale dello Stato dovrebbe essere la prima esigenza da soddisfare per portare il Bel Paese fuori dal terreno minato delle scelte non sottratte all’emozionalità e alla passionalità, compiute da generazioni soggiogate dal fideismo religioso (giudaico o cristiano) e/o dal fanatismo politico (fascista o comunista) e allontanarlo da quel declino che nessuno più riesce a negare.

Il bilanciamento tra i tre poteri dello Stato, legislativo, esecutivo e giudiziario, non è una panacea ma è osservato, con qualche risultato utile, in tutte le cosiddette liberal-democrazie, tranne che in Israele e in Italia. Perché tale singolarità?

E’ difficile trovare una ragione logica, senza fare ricorso a un processo logico deduttivo.

Per motivi religiosi in questi due Paesi si ritiene che Dio sia soprattutto interessato alla Giustizia e, poi, eventualmente alla Misericordia.

In conseguenza il relativo potere nelle Costituzioni di tali due Stati è stato sovraordinato agli altri due.

Il risultato è che i vincitori di un concorso pubblico, di modeste difficoltà, espletato da giovani appena usciti dall’Università spesso malamente frequentata, oggi, sono in grado di impedire ai rappresentanti scelti dal popolo sia di governare sia di fare leggi ai giudici non gradite. La giustizia e il perdono divino sono passati nelle loro mani terrene.

E’ chiaro che nessun Paese in queste condizioni è in grado di andare avanti.

I volenterosi “pannicelli caldi” non bastano. Occorre sottoporre i giudici alle leggi dello Stato, come tutti gli altri cittadini, affidare il Consiglio Superiore della Magistratura a persone di collaudata integrità e provata intransigenza morale, estranei alla categoria e non a rappresentanti della loro corporazione, abolire l’ipocrita obbligatorietà dell’azione penale, affidare il compito dell’accusa pubblica ad avvocati privi di ogni potere giurisdizionale (id est di jus dicere, che è compito del giudice) e di carriera diversa da quella dei giudicanti (avviene così per gli affari civili e amministrativi), impedire le trasmigrazioni da un potere all’altro, mantenendo i piedi in scarpe diverse, rivedere tutta la politica perdonistica che ha il suo addentellato costituzionale nella teoria dell’emenda.

E poi, diciamolo, tante magistrature sono francamente troppe e continuare a discettare di distinzioni astratte (e spesso astruse) è uno spreco che il Paese non può ulteriormente consentirsi.

Vi sia un solo tipo di giudici per tutte le controversie e facciamola finita con finte gerarchizzazioni di valori professionali.

Per la Pubblica Amministrazione le cose non vanno meglio.

I modelli per organizzarla sono due: o si fa la scelta che fu fatta dal Re Sole e che abbiamo ereditato da Napoleone e da Mussolini e i pubblici impiegati, assunti con il solito, elementare e nozionistico concorso, sono al servizio del potere politico o si opta per il sistema inglese delle Autorità e delle Agenzie i cui membri sono selezionati da personalità eminenti scelti una tantum e non arroccati nei gangli della politica.

Ciò che assolutamente dovrebbe essere vietato è la commistione dei due sistemi: trasformare le Autorità in terreni di clientela politica per nominarvi “amici”, com’è avvenuto in Italia.

So che si tratta di una cosa non facile per avere fatto in proposito un’esperienza personale, che non qualifico né in senso negativo né in modo positivo. Sono stato, credo, l’unico Ministro della Repubblica Italiana a dimettersi senza scandalo o clamore mediatico.


La mia proposta di abolire tutte le Autorità tranne l’Antitrust o di sostituire integralmente il sistema di Colbert con quello britannico non era mai stata portata in Consiglio dei Ministri.


La mia permanenza al Governo era divenuta, a mio giudizio, del tutto inutile.


Se i due poteri ricordati (giudiziario ed amministrativo) piangono, il terzo, quello legislativo, non ride.


Al Parlamento non giungono veri rappresentanti del popolo votante ma scherani dei capi-partito imposti in liste da “prendere o lasciare”. Questa non è democrazia.


Dulcis in fundo, va detto che nessun Paese è in grado di resistere e sopravvivere oltre un certo tasso di corruzione e quello italiano è arrivato al diapason.


LUIGI MAZZELLA

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